
Retroscena
La mia piccola storia delle telecomunicazioni
di Thomas Meyer
Quando ero giovane, bastava una telefonata per vedere gli amici. Oggi servono numerosi messaggi. E diverse settimane di attesa.
Di recente ho fatto una cosa assolutamente folle: ho chiamato spontaneamente il mio vecchio amico Simon e gli ho chiesto se volesse uscire a cena con me – proprio adesso. Venti minuti dopo eravamo seduti nel famoso ristorante asiatico Lily's di Zurigo e parlavamo di come di solito sia molto più complicato incontrare qualcuno. «Anche qui è pieno oggi», fa notare Simon gesticolando con la mano per circoscrivere il locale. «Sì», ho detto, «perché si sono tutti messi d'accordo sei settimane fa. Provvisoriamente».
Quando eravamo giovani, trent'anni fa, ci chiamavamo sui numeri fissi – li sapevamo tutti a memoria – e ci davamo appuntamento la sera successiva o quella dopo. Ed era fisso. Nessuno usava l'avverbio «provvisoriamente» in questo contesto. Nessuno pronunciava la strana frase: «Devo ancora vedere». Chi cercava di fissare un incontro «non il prossimo mercoledì, ma quello successivo» veniva deriso, proprio come chi usava un'agenda.
Poi sono arrivati i cellulari. In breve tempo, la comunicazione si è tramutata in SMS. Questo non le ha giovato affatto. Fino ad allora affrontavamo i problemi di relazione e di amicizia di persona, o almeno al telefono. Sebbene fosse sempre terribilmente scomodo e difficile, di solito risolveva la questione. Grazie alla nuova tecnologia, avevamo un modo per evitare il confronto diretto.
Da quel momento in poi ci siamo trasformati in giuriste e avvocati militanti alla minima occasione, lanciandoci brevi messaggi gelidi. Questo finiva sempre in brutte discussioni ma, a quanto pare, lo preferivamo al doversi guardare negli occhi. Mi ci sono voluti diversi anni per realizzare quanto sia stupido. E qualcuno in più per rompere di nuovo l'abitudine.
Anche beccarsi con gli amici è diventato improvvisamente complicato. Ciò che un tempo richiedeva al massimo due minuti di conversazione, ora produceva almeno cinque messaggi o e-mail. E poiché non si conosce solo una persona, ma diverse, il numero di messaggi ha continuato a moltiplicarsi. Improvvisamente ci sono stati doppi impegni, domande sfuggite e la frase «devo vedere». Inoltre, tra un messaggio e l'altro, si sono insinuate delle pause considerevoli.
Ancora una volta, avremmo potuto accorgerci subito che ci stavamo complicando inutilmente la vita scrivendo invece di parlare. Ma per qualche motivo ci sentivamo così fighi in questa nuova era digitale che nessuno voleva tornare ai metodi ormai superati.
Siamo arrivati a un punto assurdo. Di recente volevo organizzare un incontro con un amico, ma non è stato per niente facile perché entrambi lavoriamo e abbiamo figli. Dopo due tentativi andati a vuoto, mi ha chiesto di proporgli nuove date, però «non prima di due settimane, giusto per fare una call per fissare l'appuntamento».
Insomma, ha proposto di organizzarci per organizzare l'incontro.
«Dimmi semplicemente una sera in cui possiamo vederci», gli chiesi. E poi ce l'abbiamo fatta. Dopo cinque settimane. Per un'ora, poi doveva già scappare.
Oltre a lui, ci sono molte altre persone che mi stanno molto a cuore, ma con le quali sono in contatto solo una o due volte all'anno. Certo, potrei chiamarle, anche più volte alla settimana, come facevo un tempo. O loro me. Invece, ogni tot mesi ci scambiamo questi messaggi:
Come va?
Bene, tu?
Anche, sempre molti impegni.
Anch'io.
Ci vediamo prossimamente?
Sì, volentieri!
E poi finisce lì. Come già detto, io non sono meglio. Inoltre, continuo a mandare messaggi all'infinito invece di toccare semplicemente l'icona del telefono (oggigiorno serve ancora a qualcosa?). A volte lo faccio comunque, poi io e il mio interlocutore commentiamo sollevati quanto sia più facile e piacevole fare una telefonata veloce. Solo per poi tornare a non farlo.
Se alla fine l'incontro si svolge, la serata insieme consiste principalmente in un aggiornamento su ciò che è accaduto dall'ultimo incontro. Lo stupore è grande – cosa, vivi in Argovia ora? Cosa, avete un secondo figlio?
Questa non è una conversazione, ma piuttosto un aggiornamento. Come due rane fatte di metanfetamina, si salta da un argomento all'altro senza approfondirne nessuno e, mentre ci si saluta, si giura di non far passare così tanto tempo fino alla prossima volta. Ma accadrà esattamente questo. Siamo diventati come comete che appaiono brevemente nel firmamento dell'altro ogni 100 anni e poi scompaiono di nuovo nell'oscurità.
Naturalmente, questa è solo la mia percezione. Probabilmente oggi ci sono molte persone che si mettono d'accordo per incontrarsi come facevamo io e Simon, ovvero semplicemente chiamando. E che si incontrano spesso come facevamo io e Simon.
Tuttavia, la mia compagna, che è nata una generazione dopo di me, sostiene che ormai nessuno telefona più. Solo io e altri boomer. Sono l'unica persona con cui parla al telefono. Oggi, dice, è scortese anche solo chiamare.
Chiamare dovrebbe essere scortese? Sbigottito, le ho chiesto spiegazioni. Ebbene, mi ha detto, i giovani vivono la telefonata come un'esperienza invadente: qualcuno che ti chiama ti toglie la libertà di scegliere quando comunicare.
So per esperienza personale, purtroppo ricca, cos'è un'esperienza invadente. Essere chiamati non lo è. Piuttosto, lo sono i messaggi vocali prolissi e interminabili.
Qualche tempo fa ho fatto qualcosa di ancora più folle: ho scritto a un altro amico, anche lui di nome Simon, dicendo che sarei stato felice di incontrarlo regolarmente. Una volta al mese. Da allora lo facciamo. E organizziamo il prossimo appuntamento lì per lì. Ci mettiamo due minuti, proprio come allora. È anche un grande complimento – implicitamente, dice: mi piace così tanto passare del tempo con te, che vorrei che le pause in mezzo fossero il più brevi possibile.
E tu? Come vivi l'organizzazione degli incontri? Preferisci telefonare o scrivi soltanto? Quanto spesso vedi le tue amiche e amici e quanto tempo passa prima di vederli? Discuti via chat (smettila subito!)? E Thomas Meyer è un boomer? Fammelo sapere nei commenti.
Nato nel 1974 a Zurigo, lo scrittore Thomas Meyer ha lavorato come redattore pubblicitario fino alla pubblicazione del suo primo romanzo «Non tutte le sciagure vengono dal cielo» nel 2012 (tradotto in italiano nel 2015). È padre di un figlio e quindi ha sempre una buona scusa per comprare Lego. Per saperne di più: www.thomasmeyer.ch.
Curiosità dal mondo dei prodotti, uno sguardo dietro le quinte dei produttori e ritratti di persone interessanti.
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